Macchiagodena, la Terrazza sul Matese
Aggiornamento: 3 dic 2020
La storia del Borgo, tra leggenda e mito.

“Buoni buonà, bon Capodà, tant pes stu canton, tant pozzn psà le ricchezze del padrone”.
Mi parve di vederle quelle creature scorrazzare tra le mura in pietra bianca, bussare ad ogni porta come a vestire dei re magi, i mantelli. Tra le mani a far da culla, un cantone, un pezzo di pietra benaugurante.
Poteva esserci maniera più garbata di augurare un felice inizio d’anno nuovo?
Sbattei gli occhi, come a destarmi da quella fugace e fievole passeggiata nel passato.
Sarebbe così bello se le tradizioni, invece che a cullar fosse la memoria, potessero essere respirate dal presente, a pien’aria.
E il valore d’ogni pietra tra quelle stradine chinate, lo sentii sulla pelle e nella voce dei suoi dimoranti.
A proposito di dimoranti.
Alzai gli occhi.
L’ antico castello di Macchiagodena posto a strapiombo sulla roccia in tutta la sua austera leggenda. Leggenda narrante d’un dimorante altroché usuale, oserei dire. D’un fantasma.
Un tocco di passo varcò l’ingresso. Mi ritrovai dinanzi ad un ambiente a forma tondeggiante, posto all’estremità d’una rampa d’accesso. Chiusi gli occhi e mi riconobbi a passeggiare tra tavole dipinte ed ornamenti dalle tenue tinte, focolai e arredi ottocenteschi.
Abiti cortesi e nobili gesta.
Libri antichi a dimorar le pareti e gli scaffali.
Se solo potessero raccontare delle storie che hanno veduto.
Ah il fantasma. Si narra d’un fantasma che s’aggira tra quelle mura le notti di piena luna. Più esattamente di un guerriero con la testa mozzata sotto il braccio. Di quegli incontri che ti fanno balzar la testa dal collo, potremmo dire.

Ma è di un altro guerriero che voglio narrarvi, o meglio di un lanciere.
Alfredo Notte.
Aveva conosciuto sin da giovane il significato di una vita dura. Aveva conosciuto sulla sua pelle la modestia d’una esistenza umile e mansueta. Alfredo era nato e cresciuto lì, tra i pascoli di Macchiagodena. Trascorse le sue giornate tra il lavoro nei campi e dietro le greggi fino ad un dì di febbraio, il febbraio del 1940 quando presso la sua dimora giunse l’attesa e inevitabile cartolina rosa. Chiamata al servizio di leva.
E fu proprio in quell’anno che dal verde dei suoi pascoli si ritrovò sui sanguinosi campi di battaglia del secondo conflitto mondiale. E seppure paresse così lontana all’origine, quella guerra cominciò ad avvicinarsi sempre di più. Passò per l’Albania, giunse a Durazzo.
Quell’uomo, nobile d’animo, si distinse per il coraggio, l’estro e la volontà.
Ma si sa, la guerra porta morte. La morte di chi difende, la morte di chi attacca. Senza alcuna distinzione.
Fu ordinato al lanciere Alfredo Notte e ai suoi compagni di muoversi d’assalto nei pressi del Torrente Drina. Le lotte si protrassero per due giorni. Niente potettero le armi in pugno e le baionette inastate, Alfredo Notte fu raggiunto da una raffica di proiettili e cadde in terra, stremato e moribondo.
Gli ultimi respiri c’aveva in corpo li tese ai suoi compagni, come aveva fatto in vita, dando loro la forza di continuare e vincere la battaglia. Per lui, vano sarebbe stato ogni sforzo d’essere salvato.
E a dar prova, ancora un’ultima volta del suo valore ed eroismo, fu l’ultimo gesto che donò alla storia. Un attimo prima di spegnere gli occhi per sempre, il giovane lanciere col sangue di cui era bagnato, scrisse su una cartolina che aveva in tasca, quattro semplici parole, testamento eterno d’un uomo d’onore : Caduto per la Patria.
Alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare
“In due giornate di aspri combattimenti, primo tra i Lancieri appiedati, si lanciava più volte all’assalto contro munite posizioni. Colpito a morte, continuava ad incitare i suoi compagnia proseguire nella lotta ad oltranza. Prima di spiare, con uno sforzo sovraumano, riusciva a vergare il suo testamento spirituale, scrivendo col suo sangue su di una cartolina del Reggimento : Caduto per la Patria. Riaffermava col suo gesto l’eroismo e la dedizione del soldato italiano alla patria. Ostreni Vogel, Fronte Greco, 10-11 Aprile 1941”.
Così recitava il meritato ossequio al giovane lanciere di Macchiagodena.
Mi incamminai a calpestar quelle vie, lasciando alle mie spalle i raggi del sole solleticare le fragole e i frutti di bosco aggrappati, instancabili ai rami. Le conifere e gli arbusti a far da cornice.
Che dolce profumo.
Manuela Genova